Le società dei social media non amano i palestinesi ( 1’parte)
di Antony Loewenstein - 29 maggio 2025
L'uomo nella fotografia era tra amici che la pensavano allo stesso modo. Nel maggio 2021, al culmine del conflitto tra Hamas e Israele, l'allora ministro israeliano della Giustizia, Benny Gantz, ha tenuto diversi incontri Zoom con dirigenti dei social media. Funzionari israeliani diffusero poi una sua foto seduto alla scrivania, intento a parlare davanti a un grande schermo dove apparivano i dirigenti in questione. Gantz ha parlato con i responsabili di Facebook e di TikTok chiedendogli di rimuovere contenuti veri che a suo avviso incitavano alla violenza e diffondevano disinformazione. Gli disse di agire con prontezza di fronte alle richieste di rimozione provenienti dal governo israeliano.
«Sono misure che preverranno la violenza istigata di proposito attraverso i social da estremisti che cercano di nuocere ai nostri paesi», disse Gantz. «Siamo in un momento di emergenza sociale e confidiamo nella vostra assistenza».
Durante questi incontri Gantz ha parlato tra gli altri con Nick Clegg, ex vice primo ministro britannico all'epoca vice vicepresidente di Facebook per gli affari e le comunicazioni globali, e con Joel Kaplan, vicepresidente di Facebook per la policy pubblica globale ed ex alto funzionario nell’amministrazione di George W. Bush. Sia Facebook sia Tik Tok espressero le loro condoglianze per gli israeliani che avevano perso la vita nel conflitto, ma non ci fu alcun cenno alle centinaia di palestinesi uccisi. La settimana dopo la riunione, il governo israeliano disse che Facebook era molto più sensibile alle sue richieste di eliminare determinati contenuti.
Clegg, Kaplan e Azzam Alameddin, responsabile della policy per il medio oriente e l’Africa del Nord, di stanza a Dubai, ebbero riunioni virtuali anche con il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh e si scusarono per la rimozione di post palestinesi. Facebook ammise che parole chiave come “resistenza” e “martirio” erano state tolte per errore e promise di riesaminare i criteri di valutazione dei contenuti, ma non fornì alcun dettaglio concreto su come in futuro avrebbe potuto comportarsi meglio.
Cercò di rispondere alle critiche provenienti da entrambe le parti coinvolte nel conflitto allestendo un “centro per le operazioni speciali”, con personale capace di parlare ebraico e arabo e dichiarò che l’iniziativa era volta ad assicurare che le politiche di Facebook non venissero violate.
Israele non aveva molto di cui preoccuparsi perché in quel periodo le piattaforme di social media, da Facebook a YouTube a Tik Tok a Twitter, bloccavano di routine i contenuti critici verso lo Stato ebraico o quelli che mostravano il punto di vista palestinese. Anche se durante quell'ultimo conflitto con Hamas sembrava inasprirsi, tale censura rientrava sostanzialmente nella norma, dopo un decennio in cui i post palestinesi scomparivano a ritmo allarmante.
All'interno di Israele la capacità dello Stato di censurare i contenuti che riteneva inadeguati non fece che crescere.
Nel 2021 la Corte suprema ha riconobbe all'Unità Cyber di Israele il permesso di operare dietro le quinte, tenendo segretamente i rapporti con le società di social media, e di rimuovere i post senza consultare gli utenti. È un sistema chiuso in cui i palestinesi possono solo immaginare i motivi per cui le loro parole scompaiono.
Una ex moderatrice di TikTok, Gadear Ayden, nel 2021 rivelò di aver fatto parte della «squadra israeliana», il gruppo che moderava i contenuti provenienti da Israele e dai territori palestinesi, e durante il conflitto tra Israele e Hamas di quell'anno aveva notato che sulla piattaforma venivano lasciati molti più video con violenti contenuti antipalestinesi. Ayden spiegò inoltre che ogni team di moderatori della sua squadra era guidato da israeliani e che «nessuno degli arabi presenti in quel gruppo è salito di livello nell'organigramma aziendale»
Quando nell'aprile 2021 Israele iniziò la demolizione delle case palestinesi nell'area occupata di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme Est, alcuni attivisti scoprirono che i post con l'hashtag #SaveSheikhJarrah continuavano a scomparire da Facebook, Instagram e Twitter: Numerosi account Twitter venivano sospesi e molti post su Facebook venivano rimossi. Bolle di avvertimento accompagnavano post di solo testo su Instagram e le dirette video da Sheikh Jarrah erano rese inaccessibili. Non è stata fornita alcuna spiegazione tangibile, a parte un presunto disguido tecnico, secondo un portavoce di Instagram'. La società aggiunse che il problema non si stava verificando solo a Gerusalemme Est ma anche in Colombia e in alcune comunità indigene, precisando che «non è assolutamente nostra intenzione» soffocare intenzionalmente «le loro voci e le loro storie».
Nel maggio 2021 «The Washington Post» ha pubblicato un articolo con un titolo straordinariamente onesto, “L'intelligenza artificiale di Facebook tratta gli attivisti palestinesi come tratta gli attivisti neri americani. Li blocca", in cui si liquidavano come false le affermazioni di Facebook e Twitter che fosse colpa dell'intelligenza artificiale se in rete scomparivano le storie riguardanti i palestinesi. Jillian C. York, responsabile per la libertà internazionale di espressione presso la Electronic Frontier Foundation, spiegò: «Ciò a cui di fatto assistiamo è la replica online della repressione e della disuguaglianza offline: i palestinesi sono tagliati fuori dal dibattito sulla politica».
Questo ha trovato conferma alla fine del 2021 quando alcuni documenti fatti trapelare dall'interno di Facebook hanno dimostrato che degli alti dirigenti non avevano voluto rimuovere i post estremisti diretti contro gruppi minoritari, nel timore di offendere «partner conservatori»
Questa censura diffusa colpì molti palestinesi. Centinaia di post semplicemente scomparvero per motivi sconosciuti. Mohammed el-Kurd, un attivista di Gerusalemme Est con circa un milione di follower su Twitter e Instagram, nel maggio 2021 scoprì che le sue storie su Instagram avevano una circolazione estremamente limitata e nemmeno i dipendenti di Facebook sapevano spiegare perché. In seguito l'azienda sostenne che si trattava di un problema tecnico. Un documento interno ha riconobbe che Facebook aveva assunto una «posizione volta a minimizzare il nostro eccessivo controllo sui contenuti provenienti dalla Palestina, per poter permettere alla gente del posto di condividere ciò che sta succedendo: non dovrebbe esserci alcun motivo perché i suoi contenuti vengano rimossi o limitati». Tuttavia i problemi continuarono a ripetersi.
Un palestinese aveva un figlio piccolo di nome Qassam e quando nel 2021 gli fece gli auguri su Facebook si vide rimuovere il post, probabilmente perché la società pensava che si riferisse alle Brigate Izz ad-Din al-Qassam, l'ala militare di Hamas. «Queste parole fanno parte dei nostri discorsi, sono una componente della nostra cultura», ha dichiarato Iyad Alrefaie, direttore dell'organizzazione Sada Social, che monitora i diritti digitali in Palestina. «Facebook non distingue tra nessun contenuto». Un abitante di Gaza aveva postato la foto di un edificio prima che venisse colpito da un missile israeliano il 15 maggio 2021, ma la foto fu tolta da Instagram (anche se dopo le
proteste venne ripristinata)
I doppi standard erano ovvi. Secondo 7amleh, il Centro Arabo per l'Avanzamento dei Social Media, nel maggio 2021 su
1.090.000 conversazioni pubbliche ebraiche presenti sui social 183.000 erano piene di commenti provocatori e razzisti contro gli arabi, a opera di ebrei israeliani, ma nessuno di questi contenuti era stato rimosso. Alcuni dei tweet offensivi includevano le frasi «Un arabo buono è un arabo morto» e «Feccia.
Cancellateli dalla faccia della terra e non lasciatene nemmeno una traccia. Massacrate tutti gli abitanti di Gaza e tutti gli arabi ovunque essi siano». Un altro diceva: «A tutti gli arabi in ogni parte del mondo e agli arabi che stanno leggendo questo messaggio: che a tutti i membri della vostra famiglia possa venire un cancro».
Forse la censura più palese, in seguito corretta solo parzialmente, fu la rimozione da Instagram di molti post sulla moschea al-Aqsa di Gerusalemme, il terzo luogo islamico più sacro, quando nel maggio 2021 le forze israeliane presero d'assalto l'area mentre centinaia di palestinesi erano lì raccolti in preghiera. Facebook, la società proprietaria di Instagram, aveva erroneamente indicato il posto come associato a «violenza o un'organizzazione terroristica», essendo il «nome di un'organizzazione sanzionata dal governo degli Stati Uniti».
I moderatori o l'algoritmo avevano confuso la moschea al-Aqsa con il gruppo militante palestinese delle Brigate dei Martiri di al-Agsa, etichettato come un'entità terroristica da Stati Uniti e Unione Europea. Una fonte all'interno di Facebook mi ha detto che l'hashtag al-Aqsa era stato inizialmente soggetto a restrizioni perché collegato a una «organizzazione designata [terroristica]».
È confortante pensare che si fosse trattato solo di un errore innocente di un gigante dei social, ma un ex insider, Ashraf Zeitoon, che aveva lavorato come responsabile della politica di Facebook per il Medio Oriente e l'Africa del Nord dal 2014 a metà del 2017, ha dichiarato a Buzzfeed News che l'azienda im
piegava esperti di terrorismo capaci di distinguere tra un luogo santo musulmano e un gruppo di terroristi. Zeitoon aveva contribuito a stilare i criteri per Facebook su come definire il terrorismo. «Prendere una parola in un sostantivo composto da due e ritenerla associata a un'organizzazione terroristica è una scusa che non regge», ha detto. «Sono molto più qualificati e competenti di così». Zeitoon accusò inoltre Facebook di non voler urtare gli israeliani"
Alcuni degli allora dipendenti di Facebook si sono risentiti per la regolare scomparsa dalla piattaforma di voci critiche.
Misero così in agenda una domanda in vista di una riunione aziendale con l'amministratore delegato Mark Zuckerberg, nel
2021: «I nostri sistemi di integrità stanno venendo meno alle aspettative di gruppi emarginati (si vedano la Palestina, Black Lives Matters, le donne indigene). Che pensate di fare?».
Nel giugno 2021 quasi duecento dipendenti Facebook hanno firmato una lettera aperta all'azienda in cui chiedevano l'adozione di misure atte ad assicurare la protezione delle voci palestinesi. Tra le raccomandazioni c'era l'assunzione di più palestinesi, ulteriori rivelazioni sulle richieste governative di rimuovere determinati post e un chiarimento sulle linee guida in tema di antisemitismo!
Un numero crescente di lavoratori esprimeva scontento per come la piattaforma stava tagliando non solo i contenuti palestinesi ma qualunque cosa scritta in arabo. In precedenza tanto Facebook quanto molti dei promotori avevano riconosciuto il ruolo determinante svolto dalla piattaforma durante le
"Primavere arabe" del 2011; ma da allora il lustro era svanito e la gente prendeva atto dei cambiamenti che si erano verificati.
«Facebook sta perdendo credito tra gli utenti arabi», ha scrisse ai colleghi un ingegnere del software di Facebook nel 2021.
Rimangono senza spiegazione parecchi misteri. A metà del 2021 gli utenti di Facebook di tutto il mondo all'improvviso scoprirono di avere iniziato a seguire un like a una pagina chiamata “Jerusalem Prayer Team” senza che ne sapessero niente.
Con 75 milioni di follower, era la più grande pagina Facebook filoisraeliana al mondo. Gestita dal cristiano sionista e attivista trumpiano Mike Evans, il suo obiettivo era creare consenso per Israele.
Non è chiaro come una cosa del genere sia stata possibile.
Nel 2021 i giornalisti di Gaza si videro bloccare l'accesso ai loro account WhatsApp per motivi misteriosi, anche se la causa potrebbe essere riconducibile al fatto che seguivano Hamas su
Facebook. In ogni caso, non era un motivo valido per impedire l'accesso a WhatsApp. Meno di un giorno dopo, WhatsApp ha bloccato gli account di almeno trenta estremisti ebrei di destra in Istaele, compresa la moglie di Itamar Ben-Gvir, leader del partito di estrema destra Otzma Yehudit, che attualmente siede nella Knesset e propugna l'espulsione dal paese degli arabi "leali"
Verso lo Stato di Israele.
Avesse avuto a disposizione più dipendenti palestinesi, durante la rivolta del maggio 2021, Facebook sarebbe stato probabilmente più cauto nel rimuovere i post di utenti palestinesi che contenevano le parole "resistenza" e "martirio"
, perché si sarebbe reso conto che nella grande maggioranza dei casi non erano inviti alla violenza ma espressioni di sostegno alla Palestina.
Un algoritmo distorto e moderatori umani ignoranti erano all'oscuro di questa realtà, mentre i palestinesi erano politicamente deboli e quindi incapaci di competere con la forza del governo israeliano e la sua capacità di influenzare Facebook. È il motivo per cui alcuni palestinesi sono preoccupati della crescita del Metaverso, il mondo digitale immersivo che si svilupperà nei prossimi anni. C'è il rischio che la censura e le restrizioni conosciute oggi dai palestinesi sotto l'occupazione si estenderanno al mondo online!
Nel maggio 2021 alcuni attivisti filopalestinesi hanno preso in mano la situazione e hanno organizzato sui social una campagna globale per abbassare la valutazione dell'app di Facebook, dando alla piattaforma recensioni pari a una stella. La campagna ebbe effetto: tanto l'Apple App Store quanto il Google Play Store videro un calo importante delle valutazioni di Facebook. Un risultato significativo, seppur passeggero, per un popolo con poche risorse.
Nel settembre 2022 Facebook ha diffuso un rapporto, in inglese, ebraico e arabo, che valutava la sua performance del maggio 2021, durante il conflitto tra Israele e Hamas.
Si riscontrava che «l'operato di Meta, [la nuova denominazione della società capogruppo di Facebook] nel maggio 2021 sembra aver avuto effetti negativi in termini di diritti umani [...] sui diritti degli utenti palestinesi alla libertà di espressione, alla libertà di associazione, alla partecipazione politica e alla non discriminazione, quindi sulla capacità dei palestinesi di condividere informazioni e giudizi sulle loro esperienze mentre queste si stavano verificando».
A seguito di un «bias involontario», la società aveva così cancellato su Facebook e Instagram molti più contenuti arabi rispetto ai post ebraici, questo per la mancanza di dipendenti di lingua araba, per un bias istituzionale e per un algoritmo difettoso.
Jillian C. York, autrice di Silicon Values: "the future of free speech under Surveillance Capitalism
( Il futuro della libertà di parola sotto il capitalismo della sorveglianza), mi ha detto che, dopo una campagna lanciata con lo slogan
"Stop Silencing Palestine" (Basta con il silenzio sulla Palestina'), ci sono stati dei progressi nei rapporti con Facebook all'indomani del conflitto Israele-Hamas del maggio 2021. «I vari team di Facebook si sono incontrati a più riprese con una serie di esperti - la maggioranza dei quali palestinesi o con forti legami con la Palestina - e hanno ascoltato le nostre richieste. Hanno destinato più risorse alla questione e sono disponibili nei casi in cui dei contenuti vengano attivamente ed erroneamente rimossi. Non si sono tuttavia impegnate [...] a dare seguito alle domande di maggiore trasparenza e alle altre richieste che abbiamo avanzato».
dal libro: Laboratorio Palestina: Come Israele esporta la tecnologia dell’occupazione in tutto il mondo
di Antony Loewenstein
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