La militarizzazione dei social media dell'esercito israeliano



10 maggio 2025 - tratto dal libro Laboratorio Palestina. Come Israele esporta la tecnologia dell'occupazione in tutto il mondo di Antony Loewenstein

«Oggi Israele fornisce un completo modello politico per una guerra asimmetrica, un conflitto tra uno Stato e dei combattenti irregolari.»

YOTAM FELDMAN, regista israeliano del documentario The Lab (2013) 

«Il bombardamento israeliano di Gaza del novembre 2012, un'operazione denominata "Pilastro della Difesa", è stata una guerra di sette giorni che ha causato la morte di 174 palestinesi e 6 israeliani nonché il ferimento di altre migliaia di persone. Se il bilancio delle perdite in questo caso è stato relativamente basso, al contrario l'operazione "Piombo Fuso", avvenuta tra il dicembre 2008 e gennaio 2009, aveva provocato la morte di 1400 abitanti di Gaza. Questo conflitto ha segnato una rivoluzione nel modo in cui l'IDF ha descritto la guerra attraverso i social media. Nel timore che l'opinione pubblica di alcuni paesi occidentali si rivoltasse contro le iniziative israeliane, la cosiddetta "Instawar" dell'esercito, diede luogo a uno sforzo coordinato per twittare in diretta aggiornamenti e informazioni dettagliate sulle operazioni militari, il tutto volto ad annunciare con orgoglio l'uccisione di membri di Hamas o l'arresto di "terroristi" palestinesi. Queste produzioni facevano pensare a volte a quelle in stile hollywoodiano, di un film d'azione con effetti spettacolari e un grande budget.

La strategia sociale israeliana puntava a coinvolgere i sostenitori delle sue missioni militari, sia all'interno del paese che nel resto del mondo. Così facendo, e chiedendo ai suoi difensori di pubblicare tweet, post Facebook o immagini Instagram di sostegno, l'IDF  creò una missione collettiva che in seguito altre nazioni avrebbero potuto facilmente imitare, fomentando in rete un fervore nazionalista. Durante l'operazione "Pilastro della Difesa" l'IDF ha invitato i sostenitori di Israele a rilanciare con ferocia gli annunci sull'uccisione di "terroristi" e allo stesso tempo, ricordare a un pubblico globale che lo Stato ebraico era una vittima. Fu una forma di coscrizione di massa alla causa israeliana attraverso la militarizzazione dei social media. 

Questa guerra era intesa come uno spettacolo e l'esercito israeliano investì molto per renderla tale. Le somme destinate ai media permisero l'impiego di almeno 70 ufficiali e 2000 soldati chiamati a ideare, elaborare e diffondere la propaganda ufficiale israeliana, e quasi ogni piattaforma social venne inondata di contenuti dell'IDF.



Oggi la pagina Instagram dell'esercito israeliano ospita spesso messaggi filo-gay e filo-femministi, accanto all'intransigente iconografia militarista. Il 1° ottobre 2021 l'IDF  ha pubblicato sui propri profili social una foto del suo quartier generale inondato da una luce rosa, con questo messaggio: «Per chi sta lottando, per chi è deceduta e per chi è sopravvissuta, il quartier generale dell'IDF è illuminato di rosa in questo #MeseDellaSensibilizzazioneSuiTumoriAlSeno». 

L'attivista palestinese americano Yousef Munayyer rispose su Twitter: «Un numero enorme di donne di Gaza soffre di tumore al seno e si vede regolarmente negata la possibilità di un trattamento adeguato e di tempestive cure salvavita perché questo esercito mette in atto un assedio brutale su due milioni di anime». Su Instagram, tuttavia, i commenti sotto il post dell'IDF erano perlopiù di apprezzamento.

Questo tipo di strategia delle informazioni adottata dall'IDF è ora copiata di routine dai militari statunitensi. Nel 2021 la CIA ha lanciato una campagna social, “Humans of CIA” ('Esseri umani della CIA'), volta a reclutare nelle sue fila persone provenienti dalle comunità più disparate, in questo profondamente ispirata alle posizioni woke dell'IDF. Uno degli spot più discussi (e scimmiottati), visto il ruolo avuto dalla CIA nel destabilizzare e rovesciare innumerevoli governi dalla fine della seconda guerra mondiale, era il video di una agente ispanica dei servizi segreti che dichiarava: «Sono una millennial cisgender, a cui è stato diagnosticato un disturbo da ansia generalizzata. Sono intersezionale, ma non passo la vita a spuntare caselle. Ho sofferto di sindrome dell'impostore, ma a trentasei anni mi rifiuto di interiorizzare idee patriarcali fuorvianti su cosa dovrebbe essere una donna».



La strategia social di Israele è un tentativo sofisticato di collegare l'operato dello Stato ebraico ai valori, se non altro alle politiche occidentali che sostengono una risposta militarizzata al terrorismo (o la resistenza, a seconda della vostra prospettiva), nella speranza di farlo accettare a un pubblico globale. « I social media sono una zona di guerra per noi qui in Israele», dichiarò nel 2014, durante l'operazione “Bordo Protettivo”, il tenente colonnello Avital Leibovich, ora in pensione ma all'epoca creatore dell'unità social dell'IDF e direttore per Israele dell'American Jewish Committee. Fu una battaglia di sette settimane tra Israele e Hamas in cui rimasero uccisi oltre 2250 palestinesi, molti dei quali civili, tra cui 500 bambini, e 70 israeliani, perlopiù dei soldati.

L'obiettivo non dichiarato di questa strategia comunicativa è porre il trauma ebraico al servizio dell'occupazione perpetua. Attraverso innumerevoli post e meme, l'IDF è convinto che mostrare i sacrifici fatti da Israele nel suo eterno conflitto con i palestinesi, sia qualcosa di vincente. In questa logica, i palestinesi non hanno alcun diritto di essere arrabbiati per la loro condizione e il loro trauma non esiste. La resistenza all'occupazione viene quindi resa illegittima. Questa strategia comunicativa attrae altri paesi, la maggior parte dei quali non può eguagliare Israele in velocità e raffinatezza nelle proprie guerre contro forze ribelli o avversari interni.

La tattica è sempre la stessa: la risposta a un tweet o a un post su Facebook che suscitano contrarietà è semplicemente pubblicare altri post e tweet, con l'obiettivo di inondare la rete di una voce tale che i post precedenti vengano rapidamente dimenticati.»

«Nel 2021 Marisa Tramontano, sociologa del John Jay College of Criminal Justice, ha condotto uno studio approfondito della campagna social collegata all'operazione "Bordo Protettivo", evidenziando come l'IDF avesse usato una miriade di strumenti visivi e scritti per giustificare le proprie azioni a Gaza e in Cisgiordania. La conclusione di Tramontano è che «Israele si colloca, in parte attraverso la sua presenza social senza mediazioni, all'interno della coalizione egemonica islamofoba, dove rappresenta il fronte più orientale della “guerra globale al terrorismo” dichiarata dagli Stati Uniti».


All'inizio della rivoluzione digitale si sperava che essere in grado di filmare e diffondere foto e video delle violenze israeliane in Palestina potesse aiutare la causa palestinese. Non c'è dubbio che la consapevolezza dell'occupazione sia molto cresciuta a livello mondiale e che a ciò abbia in parte contribuito la visione nuda e cruda di come i palestinesi debbano vedersela con i coloni o l'esercito israeliano. 


Ci sono però anche ampie prove di come le dure testimonianze visive siano state fatte proprie dallo Stato ebraico per negare la realtà di ciò che i palestinesi dicono di sperimentare. Gli israeliani sostengono che i palestinesi mentono sulle loro condizioni malgrado ciò a cui tutti assistiamo. 


Essere in grado di vedere le atrocità israeliane contro i palestinesi non funziona con chi non considera questi ultimi come esseri umani, bensì li ritiene un gruppo razziale che merita la punizione e la morte. Con la popolazione israeliana che si è spostata a destra, l'imbarazzo morale è raro.


I guerrieri social di Israele sanno che collegare la sua missione alle battaglie di Washington dopo gli attacchi dell'11 settembre 2001 è vitale per ottenere comprensione e sostegno.


«La cosiddetta minaccia del terrorismo palestinese costituisce una componente chiave delle narrazioni del trauma israeliano: una minaccia quotidiana che va a sovrapporsi al trauma multigenerazionale dell'esilio e del genocidio», sostiene Tramontano.»

tratto dal libro Laboratorio Palestina. Come Israele esporta la tecnologia dell'occupazione in tutto il mondo di Antony Loewenstein

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